PROLOGO: Non c'è posto come casa.
Una verità vecchia come mare natura, che coinvolge
tutti, dalla più umile forma di vita alla più sofisticata.
Per la casa si combatte, per il
proprio spazio vitale si arriva ad uccidere.
O, in non pochi casi, a
migrare. Quando le condizioni del territorio nativo si
fanno troppo ostili, bisogna tenere la testa bassa, adattarsi e sperare di
sopravvivere alla dura prova.
Impresa non facile, quando il 'nemico'
non è solo l'ambiente.
Quando il nemico è l'uomo,
il più efficace e crudele dei predatori, non si tratta più di adattarsi, ma di
fuggire e nascondersi.
E pregare che un giorno le
preghiere trovino risposta, che la prova abbia fine nel migliore dei modi
possibili.
Qualche volta, succede.
Come oggi.
MARVELIT presenta
Episodio 1 - La quiete prima
della tempesta
Benvenuti nella Terra Selvaggia.
Questo sembrava proclamare la rigogliosa giungla
estesa per chilometri e chilometri, un angolo di paradiso pressoché unico in
tutto il mondo. Un luogo dove il tempo non si era fermato, ma
era stato fermato da una scienza così avanzata da rasentare la magia, al
preciso scopo di preservare il passato che fu, quando erano i dinosauri
i legittimi signori del mondo.
L'aria era pulita, satura di odori
che nel mondo esterno non si potevano trovare. Gli agenti inquinanti erano
assenti, qui.
Un centinaio di narici fremé, qualche lingua appuntita
scattò istintivamente alla ricerca di odori.
Le creature, cinquanta in tutto fra maschi e femmine di ogni età, si tenevano in formazione serrata, con i
piccoli chiusi al centro ed i maschi più forti all'esterno.
Di forma antropoide, guizzanti di muscoli, il più
debole fra loro avrebbe potuto dare i punti a un
culturista. C'era chi aveva un volto relativamente piatto, e chi dei veri e
propri musi da rettile. La loro pelle era coperta di scaglie smeraldine. I
maschi erano dotati di scaglie acuminate e di vistose
corna, laddove le femmine al massimo avevano una 'criniera' di scaglie
acuminate. Solo pochi, e solo fra i più robusti
maschi, avevano anche la coda.
E solo una femmina aveva anche un bel paio di ali ripiegate dietro la schiena. Quella
stessa femmina che, in un impeto di gioia, le spalancò e spiccò un salto.
In un istante, si stava già librando alta nel cielo.
Uno dei maschi, un esemplare con quattro corna, due
dalle tempie e due più lunghe dal retro del cranio, immerse in una corona di aculei, spalancò la bocca per richiamare l'indisciplinata
femmina...ma una mano sulla sua spalla lo prevenne dal farlo. "Non ce n'è
bisogno, Khadar. Siamo a casa, ormai."
Voltandosi, la creatura emise un mezzo ringhio di
disapprovazione. "Mia Signora, non possiamo considerarci ancora fuori
pericolo. Il viaggio è stato lungo ed estenuante, e l'euforia per avere trovato
una nuova patria lascerà presto il posto alla stanchezza. Dobbiamo mangiare ed
organizzare i turni di guardia, e soprattutto dobbiamo restare vicini..."
Lei gli sorrise. "Non mi
permetterei mai di mettere in dubbio la tua saggezza, Comandante. Organizza la
nostra gente come meglio credi. Quanto ad Alara, lascia che sia libera
di godere un po' di libertà; le caverne che abbiamo percorso per mesi
non erano proprio il luogo migliore per sfogare l'istinto del volo."
"Istinto del volo...Hmph, queste nuove
generazioni sono davvero esaltate." A quel punto
si voltò verso il gruppo dei quarantasette individui che componevano quanto rimaneva degli Esuli.
La femmina osservò con ammirazione la precisione con
la quale gli altri rispondevano agli ordini di Khadar. Era vero: si reggevano a
stento in piedi, ma sapevano che ancora non potevano abbassare la guardia. La
Terra Selvaggia era letteralmente l'ultimo posto al mondo dove trovare la pace,
lontani dagli affari degli Uomini; ma era anche una terra sconosciuta.
Le insidie camminavano fianco a fianco con la bellezza.
Nessuno di loro aveva esperienza, qui...
Lei sospirò. Padre mio, come siamo caduti in basso!
La loro era stata un'esistenza a dir poco
tormentata: i loro antenati nacquero dalle radiazioni delle esplosioni nucleari
nel deserto del Nevada, dove gli uomini testavano le loro armi più potenti. Si
evolsero, e da semplici iguane e lucertole divennero una nuova specie, dotata
di forza e di sofisticata intelligenza. Costruirono la
loro civiltà, eressero una splendida città sotto le montagne, e seppero difendersi
dalle intrusioni indesiderate. Prosperarono, in pace...poi,
la pace finì.
Gli assassini della razza spaziale degli Spettri Neri distrussero la loro
civiltà, quasi annientarono ogni suo abitante. Sopravvisse un pugno di neanche
duecento elementi, che dovettero iniziare il vagabondaggio alla ricerca di un
altro luogo dove vivere: gli Esuli, appunto.
L'Uomo, le malattie, la denutrizione, un semplice
incidente...giorno dopo giorno, il gruppo si assottigliava. La disperazione era
come un'ombra onnipresente nei cuori dei coraggiosi vagabondi, ma la disciplina
e la voglia di vivere erano sempre le più forti. Muovendosi continuamente,
imparando a nascondersi, spesso evolvendosi, gli Esuli giunsero finalmente
presso un network di caverne sotterranee, un immenso condotto che scorreva
parallelamente allo Stretto di Drake,
fra l’estrema punta sud del continente Sudamericano e il nordovest
dell’Antartide.
Il condotto che li aveva
portati fin qui.
Dove potevano ricominciare.
“C’rel?” la voce di Khadar la scosse dai
suoi pensieri. La femmina si voltò –era contenta che Khadar fosse tra i
sopravvissuti, ma lei non si sarebbe aspettata da
meno: il valoroso guerriero era tanto forte quanto caparbio, il leader ideale,
contrappunto a lei, la degna figlia di un padre saggio quanto idealista.
Nessuno dei due poteva fare a meno dell’altro… “Dimmi, Khadar.”
“Due squadre di esploratori
stanno controllando l’area intorno a noi. Non segnalano pericoli, per ora.” Un altro tratto sviluppato durante il viaggio: un legame empatico
comune, come una proto-mente collettiva. Non potevano trasmettersi
pensieri, ma emozioni.
E, attraverso quel legame, C’rel
percepì l’inquietudine di lui. L’inquietudine che da sempre derivava alla
presenza di esseri umani.
“Dove?” chiese lei. Se avesse
avuto la pelliccia, si sarebbe drizzata di brutto.
Lui puntò il muso verso nord. “Sento
che stanno bene, ma…”
Se lei avesse ceduto alla
frustrazione, in quel momento, avrebbe dato un pessimo esempio. Fece un
profondo respiro. “Non credo che dovremo comunque preoccuparci
più di tanto, Khadar: le informazioni raccolte indicano un livello tecnologico
molto basso nella popolazione umana. Se osassero attaccarci, se ne
pentirebbero.”
Lui annuì: anche se il padre di C’rel
si era fatto uccidere dal suo pacifismo, lei era capace di distinguere il
momento della pace da quello della guerra. Era animata da un grande
fuoco interiore e lui l’amava come una propria figlia…
Khadar voltò lo sguardo verso i
piccoli, intenti ad esplorare il nuovo mondo sotto gli occhi vigili
degli adulti. Di fatto, quei pulcini erano tutti orfani e ormai non si sapeva
più chi fossero i genitori; per qualche ragione,
crescevano molto lentamente, quasi fossero stati dei piccoli umani…ma quello
era un particolare irrilevante. Erano sani, ed erano il futuro; e presto, con
la prossima covata, sarebbero stati molti di più.
Un maschio con un paio di corna frontali frastagliate,
ad ‘L’, ed il volto piatto, si avvicinò a Khadar.
“L’accampamento è ultimato. Ci sono tracce di dinosauri. Potremmo
addomesticarne qualcuno, usarlo come cavalcatura…” Il suo nome era Jossr, ed era
il vice di Khadar, un guerriero nato ed erede conclamato alla carica di
comandante militare.
“Lo faremo, Jossr, ottima idea. Abbiamo
bisogno di mezzi veloci per spostarci…Cosa?!”
il terrore li travolse come un’ondata! Ogni Esule si immobilizzò,
facendo scattare lo sguardo verso un pericolo che, tuttavia, non era lì. “E’
Alara!” disse Jossr. “Non l’avranno..?”
I due maschi guardarono il cielo: non sapevano neppure
in che direzione si fosse diretta!
Jossr posò una mano artigliata sulla spalla del suo
mentore. “Non è colpa tua: siamo tutti stanchi ed affamati. Khadar…”
“E’ stato preso qualcosa?” chiese il capo militare.
“Frutta, pesce, qualunque cibo:
voglio i migliori maschi che tu possa darmi, e ben
nutriti. Dobbiamo metterci alla ricerca di Alara,
subito! E tu resterai qui, a difendere gli altri.”
“Hoho!” esclamò in assenso
l’altro, annuendo, per poi organizzare il gruppo.
In altre occasioni, Khadar
avrebbe imprecato pesantemente all’indirizzo di Alara,
ma ora che il sangue del loro sangue era in pericolo, contava solo salvarla!
Alara si sentiva inebriata come non mai, i morsi della
fame dimenticati. L’adrenalina scorreva come un fiume nelle sue vene, mentre il
paesaggio scorreva sotto di lei ed il vento fresco l’avvolgeva come un guanto.
Aveva sentito parlare della Terra Selvaggia, ma come
tutti quelli della sua età aveva anche imparato a
considerarla alla stregua di un mito, una favola per tenere tutti buoni, mentre
vagabondavano… Una favola, certo, ma anche l’unica speranza che avessero, la
loro terra promessa. Lei stessa non aveva avuto altra scelta che crederci, o sarebbe impazzita; il solo essere stata costretta a
camminare quando il cielo la chiamava l’aveva portata sull’orlo della ribellione
aperta. Solo la saggezza di C’rel e la severità di Khadar
l’avevano convinta a trattenersi…
Ma ora, a tutto questo lei non
voleva pensarci. Le sofferenze erano una cosa del passato,
e mano a mano che Alara lo realizzava, dava un nuovo colpo di ali.
Guardò ancora in basso, bevendo con gli occhi
all’immensità di quel posto. Sacro
Antesys, quale gloria! Era così grande,
e così vario -un vulcano, paludi, grandi fiumi e
laghi, pianure, persino un deserto…
Ed un villaggio degli uomini!
Almeno, quella era la prima associazione che le venne
in mente -in fondo, la sua esperienza quello le suggerì, alla vista
dell’insediamento recintato, una cittadella su palafitte nel mezzo di una
radura, come un ascesso nel verde.
Alara fu colta da un senso di nausea
-tutta quella strada, avevano fatto tutta quella strada per niente?
Nonostante gli istinti le
gridassero di voltarsi e fuggire, lei decise di restare sospesa in aria,
scrutare quel posto quanto meglio possibile. Khadar avrebbe avuto
bisogno di ogni informazione possibile, per
organizzare una strategia… E, comunque, nonostante la paura, lei desiderava essere di aiuto, ora che
poteva.
I suoi occhi scrutarono attentamente ogni particolare:
nonostante si trovasse a duecento metri di altezza,
vedeva come e meglio di un’aquila. Anche le sue ossa
erano cave, nonostante fossero strutturalmente più forti. Era una volatrice in
tutti i sensi.
Purtroppo, i suoi timori erano confermati: uomini e
donne abitavano il villaggio…e non da poco, a giudicare dal numero dei piccoli
presenti. C’erano fucine al lavoro, bestiame recintato e ben
guardato, appezzamenti coltivati, un mercato… Tutto, insomma, suggeriva
una prosperità frutto di stabilità.
I militari locali erano presenti con archi e frecce,
spade, lance...e nessuno di loro poltriva. Le
sentinelle pattugliavano sempre in gruppo, mentre i soldati vegliavano lungo le
strade. Questa era gente che avrebbe saputo combattere per difendersi…o per
attaccare chi non fosse loro gradito.
Alara decise di avere visto abbastanza: ora doveva
tornare dagli altri. Fece per voltarsi…quando qualcosa la colpì alla schiena! I
suoi muscoli si irrigidirono in spasmi tremendi, la
sua schiena si piegò all’indietro, fino al punto in cui le vertebre
scricchiolarono. Le ali sembrarono volere saltare via dalla schiena. La
mascella le si tese dolorosamente. Sangue sprizzò
attraverso le labbra.
Pietosamente, Alara svenne, mentre il suo corpo
precipitava verso terra…ma non fu una caduta lunga: a
cento metri dal suolo, un paio di grandi zampe artigliate la afferrarono per la
vita!
Il suo ‘salvatore’ era uno pteranodonte. Emettendo un verso
stridulo, la creatura planò con il suo carico verso il villaggio.
Il centro del villaggio era occupato dall’unico
edificio in pietra, una struttura più alta delle palafitte, un’unica cupola
grigia, simile ad un alveare, entro cui convergevano i
due principali corsi d’acqua. I fiumi si univano poi in una sola corrente, che
poi costeggiava una strada sterrata diretta verso la giungla.
Il dinosauro alato si diresse verso la cima del palazzo.
Poi, con una manovra aggraziata, difficile da credere per una creatura di
simili dimensioni e stazza, lasciò andare il suo carico come se avesse appena
sganciato un ordigno.
Il corpo di Alara finì contro
una rete disposta in mezzo a due pali, in cima all’edificio, al centro di
un’apertura.
Quando la saura fu completamente
avvolta, in modo che se anche si fosse svegliata non avrebbe potuto
dibattersi, la rete fu fatta rientrare. L’apertura fu richiusa.
In una zona dal clima tropicale quale era la Terra
Selvaggia, trovarsi in una soffitta mansardata non era proprio l’ideale. I
giochi di correnti rendevano lo spazio ristretto dell’edificio un piccolo forno
saturo di umidità. Un prigioniero già provato dalle
tribolazioni dell’arrivo era a questo punto troppo ulteriormente indebolito per
opporre poco più di una parvenza di resistenza.
Alara era ancora, comunque,
incosciente. Quattro uomini, vestiti di una leggera armatura di cuoio e grossi
pugnali ai fianchi, sciolsero la rete. Operarono a turni -mentre due toglievano
la rete, un segmento del corpo alla volta, gli altri saldavano gli arti dentro
solidi ceppi. Le gambe furono ammanettate, in modo che il prigioniero potesse
solo camminare a piccoli passi.
Fu un processo rapido, alla fine del quale la saura fu
sollevata e depositata su una piattaforma. Due dei carcerieri, manovrando
pulegge e corde, fecero scendere la piattaforma.
“Un’altra?” chiese, incredula, una donna, alla vista di Alara. La donna era nel fiore degli anni. Alta, atletica, dal volto duro ed i folti capelli neri. La
sua voce era quella di chi considerasse l’intera
umanità indegna di lei.
Si mosse come una regina verso il nuovo ‘arrivo’.
Squadrò la prigioniera come fosse stato un animale
scartato dalla fiera del bestiame. Prese il mento della saura in una mano e lo
sollevò. “Hmm, non sembra appartenere al popolo-dinosauro, ma ormai i mutanti
si manifestano un po’ ovunque. Cosa dicono le tue sentinelle
aeree, Kova?” chiese, distrattamente.
L’uomo dietro di lei era un individuo più giovane, dal
corpo forte, il volto squadrato ed i capelli prematuramente grigi. I suoi erano
gli occhi di chi un’anima l’aveva già persa da tempo.
L’uomo fece un inchino. “Non ci sono tracce di suoi
simili nelle vicinanze, mia signora.”
“Allora doveva trattarsi di
un’esploratrice.” La donna annuì, soddisfatta.
“Portatela alle celle. Nel peggiore dei casi, sarà comunque
un’altra cavia utile.”
Nonostante la loro mole, gli Esuli
sapevano muoversi con una velocità e destrezza impressionanti. Sfrecciavano fra
gli alberi come saette, macchie di verde nel verde.
Nord.
Una direzione convenzionale, un’indicazione generica.
Una ricerca disperata, ma Alara non era solo una di loro -e questo sarebbe stato sufficiente a muovere mari e monti per
salvarla- ma era anche una femmina fertile. La sua salvezza valeva ogni sforzo.
E Khadar non si sarebbe
arreso se prima non avesse visto il suo freddo cadavere. Il capo militare era
accompagnato da quattro maschi ‘corazzati’, che avevano come delle lame ossee
lungo le braccia e dietro le caviglie, e le zanne a sciabola.
Avrebbero potuto andare ancora più
veloce, invece di procedere a salti e a
curve, ma non potevano permettersi di lasciare una chiara traccia della
direzione da cui erano venuti. Furono costretti a seguire un percorso
semicircolare, evitando di costeggiare i corsi d’acqua…
Ad un certo punto, percepirono l’odore. Khadar serrò
le zanne -una palude, maledizione!
I sauri si fermarono al margine del nuovo ostacolo.
L’aria era satura di miasmi di decomposizione e di metano. Il terreno davanti a
loro, coperto da un fitto strato di erba, era solo
apparentemente solido. Pesanti come erano loro, i
sauri sarebbero sprofondati in una trappola mortale in men che non si dica.
Khadar afferrò una canna, stritolandola senza
accorgersene, producendo suoni secchi che smossero sciami di insetti.
“Signori, dobbiamo separarci. Voi due,” disse
indicando con l’artiglio, “ad est. E voi due a…”
“Voi cosa ci fate qui?”
Al suono di quella voce, femminile, umana, Khadar si voltò di colpo, pronto
a tutto…
…ma non ad una donna. Una donna sola, vestita di una specie di costume che le lasciava
scoperte le braccia e le gambe. Alle gambe portava degli stivali dorati,
alle braccia un paio di spessi bracciali dorati borchiati. E
non aveva un solo capello in testa.
Se ne stava sospesa lì, in mezzo all’acquitrino, gli
occhi accesi di una fosforescenza simile a quella dei fuochi fatui. Il suo
volto affilato era improntato ad un’espressione assolutamente neutra. “Chi siete? Non appartenete a nessuna delle specie native che conosco.
Perché siete qui?”
“A te, pellemorbida, non dobbiamo nessuna spiegazione,” ringhiò Khadar. “Non vogliamo combatterti, tuttavia.
Lasciaci passare in pace, e dimenticheremo volentieri di averti visto. Abbiamo
affari più urgenti di cui occuparci.”
“Voi non potete stare qui.” Lo disse con calma, una
fredda constatazione dei fatti. Allo stesso tempo, La fosforescenza ottica si
accentuò.
Una mano invisibile spinse via
Khadar ed i suoi soldati come birilli, facendoli volare per una decina di metri
-e sarebbero stati anche di più, se non fosse stato per gli alberi che
interruppero bruscamente quel volo, spezzandosi.
“Un’altra femmina con i superpoteri…” sibilò Khadar,
rialzandosi un momento dopo. “Dev’essere un destino scritto che siate voi la
nostra piaga. Ma non credere che i tuoi trucchi
possano fermarci! Sai!”
All’udire il proprio nome, entrambi i quattro sauri
partirono all’attacco! Un caso pressoché unico in biologia,
ma non impossibile quando si trattava di mutazioni casuali di un’evoluzione
forzata: quattro fratelli nati dallo stesso uovo, quattro menti legate l’una
all’altra, quattro corpi capaci di agire come uno solo.
La forza di quattro che poteva essere concentrata in
uno solo! Sai saltò, coprendo senza difficoltà la
distanza fra lui e la donna fluttuante. Fece scattare il braccio, pronto a
tagliarle la testa con un colpo solo…
Khadar vide solo un bagliore accecante! Si schermò gli
occhi con un braccio, mentre lo spostamento d’ara sopra la sua testa, un secondo dopo, segnalava il plateale fallimento
della tattica dell’assalto frontale! Gli venne un’espressione curiosa, come se venisse colpito lui ogni volta che un albero andava a pezzi.
Fortunatamente, Sai era uno dalla pelle dura: aveva
coperto una bella distanza, ma si rialzò illeso, anche se con un gran bel mal
di testa.
Khadar guardò la donna. Cominciava ad essere
spaventato dal suo potere…ma col cavolo che le si sarebbe
mostrato debole! “Chi sei?”
“Io sono Magog,” fu la
laconica risposta.
Dire che stava male era davvero un bell’eufemismo.
Alara sollevò a fatica la testa. Si giurò che se fosse
riuscita a ritrovare gli altri, avrebbe permesso a
Khadar di amputarle le ali, se lui lo avesse voluto.
Fame, stanchezza, freddo, esaurimento… Il cuore quasi
non se lo sentiva più.
Alara si sollevò su braccia tremanti. Si guardò
intorno; ai suoi occhi, la stanza era grande, grande e buia. C’era solo una
fonte di luce visibile: il suo stesso corpo.
Iniziò a tremare. Non ebbe bisogno della vista, per
sapere che il suo fiato stava uscendosene in nuvolette. Non aveva freddo a
causa della debolezza, ma a causa della temperatura ambientale. Era abbastanza
freddo da succhiarle le forze, non abbastanza da ucciderla… Forse, allora…
“Ssperi di evadere, piccina?”
Alara sobbalzò! Un nuovo flusso di adrenalina
le diede la forza di mettersi in piedi…ed urtare con forza il soffitto della
sua gabbia!
Massaggiandosi la testa, la giovane imprecò contro sé stessa. Khadar aveva speso tutto il tempo disponibile per
insegnare a tutti il valore della conoscenza
dell’ambiente: per prima cosa, quando ci si trovava in un luogo sconosciuto,
bisognava esplorare quel luogo, non importa quanto tempo ci volesse!
E lei era talmente stordita
da non avere realizzato di essere in gabbia. Fantastico!
“Altri ci hanno provato, tutti hanno
fallito. Molti ssono morti.”
“Chi sei?” chiese Alara, afferrando le sbarre. “Non ti
vedo. Sei della nostra gente?”
“In un certo ssensso,”
continuò la strana voce sibilante. “Come ti chiami, ragazza?”
“Mi chiamo Alara. E tu?”
confrontarsi così con un estraneo, mostrarsi vulnerabile…avrebbe meritato dei
morsi per questo…ma non le importava! Non le importava nulla tranne un minimo
di conforto, adesso. Ma sarebbe stata attenta, non
avrebbe tradito la sua gente, mai!
“Oh,” disse la voce
dall’oscurità. “Io mi chiamavo Vincent, una volta, quando ero un debole.
“Ora mi chiamo Sstegron.”